Salam, maman di Hamid Ziarati

Ora potrei facilmente incontrare la morte, ma finché posso vivere non le andrò incontro; anche se un giorno, costretto, affronterò la morte, non ha importanza, l’importante è se la mia vita o la mia morte abbiano avuto qualche influenza sull’esistenza degli altri.


Dopo aver letto "Il meccanico delle rose" e "Quasi due" ho letto anche il terzo libro di Hamid Ziarati: "Salam, maman". (Anche se poi credo sia il primo che ha scritto!)
Leggendo la sua biografia ho letto che è stato scritto dopo la nascita del primo figlio, perchè sentiva il bisogno di scrivere un libro che parlasse del ricordo e dell’appartenenza alla sua terra.

Il romanzo racconta la storia di una famiglia iraniana con 4 figli piccoli. Vivono a Teheran, la Teheran degli anni '70 che vive il regime dispostico dell'ultimo Scia, Reza Pahlavi e poi dopo la Rivoluzione passa alla democrazia teocratica di Khomeini, ayatollah e pasdaran. Il romanzo è articolato in cinque capitoli di diversa lunghezza e tutti caratterizzati da un incipit-sogno: il sogno di Alì (voce narrante), il sogno della madre (maman Parvez), il sogno della sorella (Parì, gemella di Puyan), il sogno del padre (babà Parvaneh) e una sura del corano, il versetto 81: un monito alle turpi azioni umane sulla terra e relative infernali conseguenze.
Protagonista del romanzo è Ali, il terzo dei 4 figli. E' un bimbo curioso e attento a quello che gli succede intorno. Fa mille domande a tutti, ricevendo spesso risposte che non lo soddisfano, per cui viaggia molto con la fantasia. La Rivoluzione del 1979 tocca molto da vicino la famiglia di Alì, perchè Puyan, il fratello maggiore, studente appassionato di fotografia, viene arrestato. Puyan legge libri proibiti, ha una mente libera e fa parte di un movimento di attivisti contrari alla monarchia. Manifesta contro l’ingiustizia sociale, contro la disoccupazione, contro la mancanza di libertà di espressione, contro il ritardo che il Paese dimostra nonostante l’immensa ricchezza rappresentata dai giacimenti petroliferi. Quando viene liberato, Puyan è molto cambiato. E’ scosso e rinchiuso in se stesso. Riesce a riprendersi solo grazie alla fotografia e, proprio questa sua passione, gli permette di andare in Inghilterra. Poco dopo anche la gemella Parì si trasferisce negli Stati Uniti per motivi di studio. Dopo un po' anche la minore Parvin, la raggiunge. La famiglia è smembrata mentre le vicende politiche dell’Iran sembrano precipitare di violenza in violenza, passando dalle manifestazioni di piazza agli scontri a fuoco, dalle repressioni ai massacri culminando nella cacciata dello Scià e nell’avvento dell’ayatollah Khomeini. Alì è rimasto solo a casa con i genitori e vede e racconta cose che un ragazzino non dovrebbe mai vedere. Gli eventi sono molto più grandi di lui e lui ne prende parte quasi senza volerlo.

Nonostante i temi duri e non allegri, ho trovato questo libro scorrevole e molto piacevole. Alì e i fratelli mi sono entrati nel cuore quasi come Khodadad de "il Meccanico delle rose". All’inizio la narrazione è un po’ lenta, quasi si fa fatica ad entrare nella storia, ma in un’intervista all’autore ho letto che è una cosa voluta, per permettere al lettore di “entrare in Iran” e prenderne confidenza. E’ un paese totalmente diverso dal nostro, più calmo e meno frenetico. Poi la storia diventa più incalzante e al contrario si fa fatica a lasciarla.
Mi è capitato spesso, leggendo, di pensare a quanto fosse autobiografico questo romanzo; a quanto l’autore abbia davvero vissuto tutto quello che ha descritto. Per la maggior parte di noi occidentali è sempre faticoso comprendere un mondo così diverso dal nostro. Sono rimasta affascinata dalle descrizioni di alcune consuetudini e tradizioni islamiche e persiane, ad esempio la descrizione del Noruz, il Capodanno persiano. Così come sono rimasta fortemente colpita dalle descrizioni del massacro di piazza Djaleh. Cose forse lontano anni luce da noi.

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